mercoledì 16 maggio 2012

L'HABANERA

da: Storie di Standardistan
Isabella Consoli

                                       
Non era un’illusione ottica, il sole arrivava dal fondo del vicolo lungo le muricce tese alla piazzola erbosa. Un’incuria di erbette casuali, venute su come dall’ombra delle ultime pietre antiche, dimenticate lì, di tra i nuovi materiali di costruzione dal nobilissimo il profilo. Più arioso, lieve, inconsistente di com'era non avrebbe saputo, poteva risultare una catena di combinazioni mescolate a carta di giornale per tanto che persistente ovunque un sapore antico di combustibile naturale, ma non poteva esserlo, di genuino a Standardistan non era più che il  giallo di qualche corolla del prato erta sulle brevi scalpicciate degli abitanti. L’ombra di un fior di campo, una speranza opaca nella sorgente che inquietava il muschio di un sventagliata di luce; un ricordo breve, troppo breve d’altri mille milioni agitati dal quotidiano solare.
 Di tutti quelli la memoria ritornava con il sole, forse perché del fatale risveglio era l’immagine.. spirò lo spettatore solitario, obbediente a ricevere la quotidiana trafittura del rimpianto.  Chino al sole ad attenderla, la luce quel mattino continuò a fluire con il suo mormorio sopra il cervello che n’ebbe quasi un cedimento fisico, di poco non lo sprofondò nel panico.. e più s’accorava a desolarsi e meno sentiva, più cercava l’angoscia meno gli pesava in testa, forse nottetempo espulsa come si defeca la tenia. Dedita a strisciargli lungo le pareti dell’intestino per risalire alla piazzola del plesso a riprendere alimento e  crescere in vigore nella forma di un groviglio viscido che allacciava la fronte intorno la domanda,  per qual ragione pratica mi risveglio un maledetto giorno appresso all’altro!
Erano quasi eguali i mille e i mille giorni affollati della spietata interpellanza mattutina, un filo che s’addipanava un’alba dopo l’altra lungo i 70 anni meno trenta, ovvero per il lungo di quaranta. Consumati a mezzo tra il frusciare  disordinato di memorie marcite e la silenziosità accecante dei ghiaccai eterni.
I due moti dell’angoscia
A misura che usciva dal sonno lo sorprendeva della medesima insensatezza dell’essere e il pari impulso a non più esserlo. Non essere più, a dispetto del più e il meno che Standardistan aveva soppresso con meritato successo.
L’idea non lo abbandonava che il cataclisma avesse distrutto le sue facoltà reattive e rudemente innestato nel docente delle "Scienze della Certezza"  l’incapacità di porre davanti alla cifra personale il simbolo che egli stesso avesse diletto,  il più, il meno che da 40 anni più o meno non risolveva né di qua né di là. Della pratica desolante volgare, insapore, incolore delle solite faccende. Pensandosi lo prendeva l’immagine viva di una immota vallata corsa da un vento rigido, veduta da bambino, forse puramente immaginata.
Erano uguali i giorni della sua vita, che la vita prima di quella vita immaginava come dalla balaustrata del centesimo piano, quando riduce le cose alla proporzione della formica, attraversò con ansia la memoria in cerca di un risveglio simile al settantesimo, se non lo meravigliava non trovarlo, lo sovrangosciava averlo perduto oggi, non avere riedificato la sua persona il solito costruito di fango e frasche con il tetto di cemento armato.
Non mi sento più la testa, non ne sento il peso, non mi ci sento appeso sotto. Dunque sono morto.
Non è scritto la morte l’interruzione della vana ansietà del moto.
La morte è bene dire non mi sento più la testa. Leggera, lieve, armoniosa, ho la mente scatenata, sciolta dalla materia grigia e bianca e l’ossa e il cranio e la noia e il tedio. Tende all’orizzonte come foglia colta dalla passione del vento settentrionale, aggraziata, senza sentimento, per troppa grazia ripullula ancora e ancora sulla balza ariosa e sale e prende forza e luce e vigore dal sapere.. che oggi non ricade. Da oggi.

Radio Video Televisioni a Standardistan vengono collegati alle sei e cinquantanove all’elaboratore centrale del ministero della Pubblica Istruzione. Sciami di notizie di varia misura forma e dizione, endecasilllabi distici e settenari ridacchia il professore dalla mattina di quella strana morte.
Scatenatevi lirici di Standardistan, in poetar musicando scendano le vostre benedizioni mattutine, ma i boscotti ecodietetici no, non sopporto il lievito di birra impastato con l’erba valeriana

mangiate le gallette all’erbette, 
aaa, eee, iii, ooo uuu, 
aeiou, mangiatene di più, 
lasciatevi stuzzicare il pancino, somarelle, 
e calmare l’appetito, cosce snelle.  
E avrete latte nelle le tette, garantito
dopo quattro primavere. Capito?
Mangiate gallette all’erbette. 

E siccome non c’erano speranze di tette dopo quaranta primavere di Standardistan, il professore ch’era maschio per giunta vecchio tirò un rutto di caffelatte sulla mendacia in strepitare a tutto audio dalla parete video obbligatoria in ciascuna camera della casa. A  Standardistan si comandano per ogni vano di abitato tre pareti in quella muratura che puzza di giornale, la quarta in video per tutta l’estensione. A tutto spiano dell’idiozia  pernacchiava il professore al Figlionostro quotidiano dello Stato ai pargoli sudd.. sed.. ai pargoli sedotti.. corresse mentalmente.
Benvenga l’ordine 
Sia fatta la volontà dell’ordine. 
Come in cielo così in terra. 
Sia Gioia nell’Ordine. 
Pace nell'Ordine. 
Benessere nell'Ordine.
Levatevi al saluto, scenda  nei fondali dei cervelli.. La voleva sentire tutta la tiritera? Quindici minuti in versicoli, non era abitante in grado di sfuggire alla passione dell'Ordine, la testimonianza del suo esserci sempre in mezzo alle palle.. ma che pensava.. un quarto d’ora d’amore, l’amplesso del singolo col tutto, Numi, che piacere fisico auricolare mantrale.
Scenda il saluto dello Stato
sui quieti talami nuziali
sul basculare della culla
sui quaderni di scolaro

Rifaceva il verso
Sul fetor degli orinali
Sul dondondio del nulla
Sulle orecchie di somaro.

Imperterrito l'Ordine proseguiva
Su i nidi delle tortore
Su le ginestre in fiore (era il Maggio, in Giugno si diceva su l’Oleandro, in Settembre la Vite, in Novembre il plumbeo grigiore, in Dicembre la neve in candore)
Su la eco della gioia
Sulla sabbia dorata
sul mare in quiete.


Sui miracoli dell’ordine
Su le ombre dei cipressi
Su i sudori benemeriti
Su i riposi meritati.

Sull’assenza che non chiede
Su la nuda solitudine
Su i gradini della morte
Amen, chiuse in petto il professore l’antico verso di un dimenticato  Paul Eduard, sconosciuto ai nuovi nati di Standardistan.
E pure ai vecchi, ma non a lui, strano per uno che abbia perduto il peso della testa.

   Se lo colgo, muore? La bambina nel quadrangolo erboso ferma davanti al fiore familiare, a pena china sulla corollina in sole. Volse la testina senza sollevare l’occhio, ripeté al suo ginocchio, Signore, se lo colgo muore?
Sulla vecchia assenza in pantaloni che non l’aveva chiesto, cadde il saluto, sopra i ginocchi infranti, i piedi stanchi, le barriere del tedio, sulla nuda amarezza cadde il Mattino dell’Essere.

Perché lo vuoi cogliere?

Perché mi piace

È una buona ragione

A lui piace se lo colgo? 

Se lo tratti bene, anzi, se lo ami non si dispiace

E se muore?

Che tu lo colga o tu lasci alla terra, la vita di questo fiorellino è segnata dal tempo.

Quanto tempo?

Il tempo che gli spetta, se saprai averne cura.


Perché non ti ho seguito, non ho scelto, sia pur breve, il nostro tempo?

 La bambina aveva sollevato il capo con leggero moto su per il suo pantalone, la cinta, il petto e poi ancora fino alla cima.. al sussulto del suo minuto corpo di quattrenne e l’occhiata allocchita bloccatasi sul collo. Svuotata della parola, ma non della tenerezza in lento lentissimo apparire dal corruccio infantile.
Ed ei chinatosi a lei verso venne sopreso nel laccio delle braccia mingherline, corte e il capo dal biondo puerile destinato a incupire con il tempo, il capo dei capelli d’erbette disordinate posatogli sopra la spalla, ti proteggo io, non avere paura, ti amo anche senza fine. Chi te l’ha colta?
Il dolore, il rimpianto.. del fiore, l’incauta speranza di ritrovarlo un giorno
Quale fiore di quale giorno?
Era giovane, biondo, cadde tre volte nell’infimo.. come il libero…
Che io non seppi essere

No. Recisa la voce della bambina

In virtù di un monosillabo ricomincio dalla morte, no dici?
Tu dici che se lo colgo vive il tempo che deve. 

Il fiore viene colto, l’uomo raccolto come il pesce nella rete. Falciato come il grano biondo nel prato, scagliato come la grandine dal cielo in tempesta.
Cogli il tuo fiore, vuoi che lo raccolga per te?

Hai bambini?

Sono troppo vecchio, allora quando ero troppo giovane io ero il bambino nato per conoscermi perduto fino a che tu come un fiore mi cogliesti per vivere tre giorni ancora

Senza la corolla, rise la piccola appuntanogli il fiore all’occhiello della giacca. E il congedo di un bacio arioso affrettato dal comando Néné, devi andare a scuola. La voce chiara di una madre di Standardistan.

Era vivo senza la testa. Diavolo se era vero, testimoniava lo specchio la schiuma da barba spruzzata nel vuoto anziché il volto, gli nevicava davanti come pure uno stupore divertito. Scrutava nella lastra riflettente il fiore appuntato dalla bambina all’occhiello della giacca e siccome non ci sono speranze che una copia lavori di fantasia, il professore tirò la conseguenza logica di avere perduto il capo da vivo.
Dov’era finito?  Fose tra le coltri di una notte visionaria.. dai miasmi di un sonno narcolettico le ore del sonno ritornavano moltiplicate di sinistri suoni di seghetto e crampi senza dolore alla base del capo, è vero è vero, ricordo..e sulla parola, anzi nel bel mezzo del rico.. fra il chiasso di una ridda di pensieri ..rdo.. bloccò l’intuizione fulminante, venuta dall’esterno a spiegargli impossibile ricordare quando manca l’organo del ricordo, capirci qualcosa  quando sopra il collo è il vuoto.. e sentire parlare, ridere come stava ridendo
Sopra il collo accuratamente spianato, lucido come una maiolica, non vi era assolutamente altro da ciò che lo specchio rifletteva, il muro colore della noia e una luce diaccia in tremore di violastro. Devo riavvitare la lampadina, ma.. come vedere la luce e riflettere che le lampadine si avvitano quando si manca della testa? E mangiare..come avrebbe potuto, pure, pure.. dianzi aveva bevuto il caffelatte.
Quando i pensieri si rifugiano nel mucchio dei capillari e nelle orecchie il chiasso delle notizie in versi si espande alle gonadi, poverelle assordate all’insensibile, piene all’inverosimile mancando il controsoggetto spazzatura, ti accorgi di pensare con il ginocchio, vedere con il gomito, mangiare con il pene, parlare con la gola. E insegnare? E’ facile intuire, a Standardistan è impossibile insegnare con altro che il didietro. In postura d’angolo retto a far quadrare il conto.
Davanti la pace organizzata, fra il chiasso del nulla, perdere la testa può rappresentare un reato grave all’occhio, ma non al vuoto
Pur tuttavia,  non volle adire alla cattedra nella tale, risanata condizione.

Indagare tra le lenzuola e neppure l’ombra trovare della testa, né meno l’impronta sul cuscino, la prova scientifica ricapitolava sull’alibus preso al volo nell’intento di cercare la sede vacante del pensiero la parola l’opera il peccato l’omissione. Dove cercarla, concesso esistesse ancora?
Né meno l’impronta sul cuscino tra sé cantilenava  né-me-no-l’-im-pron- ta.. a ogni frenata ricominciava, a ogni fermata ripartiva né-me-no-l’im-pron-ta –nè me-no-l’im-pron-ta- .. non pensarci più sopra, la voce usciva dal cuore, bisogna accettare bisogna accettare, volgarità apparenza malafede idiozia rendono più che mai necessario accettare la finzione di avere perduto la memoria del rovescio
Perché non ti ho seguito, non ho scelto, sia pur breve, il nostro tempo?
 
  Trattenne a stento un conato di vomito, levò gli occhi ai numerosi che non lo notavano, non lo guardavano,
non stupivano, non fuggivano,
non ridevano, non meravigliavano,
non reagivano non tremavano,
non urlavano, non commentavano.
Uno sguado, uno solo, non impressionava l’assenza di una testa sopra un corpo seduto sull’alibus.
Il colpo di genio del potere, impresso nella forma dei volti, volti fissi, volti uguali, ombre circolanti con un piede straniero sopra gli occhi, specchi puramente quei misteri d’uomo sulla filovia alata, egli lo specchio dell’assenza globale dei cervelli, nulla di meravigliante in effetti vederli rispecchiarsi in un senza testa, senza batter ciglio. Forse che non ci riconosciamo tra di noi, un giorno dopo l’altro giorno e ancora un giorno e ancora uno e ancora?
I gatti i cani i topi scappano
sarebbe per loro un oltraggio liberarli della testa
ma le teste umane non ci sono sempre,
non per ciò il sole non sorge ogni giorno.

   Era la testa in esposizione nella vetrina del rigattiere, tra un briccabbracca di gingilli di nessun valore scrupolosamente salati d’euro. Della testa sua soltanto mancava il prezzo. Accomodata sopra un cuscino rosso vino, la targhetta segnava “La Testa di un sapiente non ha prezzo”. A giustificare la complicità con il metavalore, forse la signorilità astratta dei lineamenti. Mai s’era notato al segno aristocratico, distante, sì. La prima volta, chissà della storia umana - Robespierre è certo non potette mirarsi a tu per tu dopo la mannaia - ragionava, la prima volta che un uomo si vedeva vis a vis, in chiaro da pari a pari, dal vero. Superata la ricerca interiore della propria immagine, doppiata la riflessione dello specchio, quando ti raddoppi nell’inverso, tu del qui, tu del non qui o dell’oltre qui, quando cala la lastra riflettente a ristabilire la distanza. Nel mezzo, tra il professore e la sua testa era sì la lastra di vetro della bottega, m’al di là della lastra era un altro punto di vista del reale!
 Imparava di sè d’avere il naso appena pendente verso la destra, no la sinistra, gli pendeva il naso come al povero Vitaliano con un piede nell’alienazione, la propria leggibile in quel certo distacco degli occhi suoi d’un ghiaccio naufrago nei cieli invernali, così profondi di una sofferenza elementare, primordiale che il vago sorriso che ne proveniva poteva ingannevolmente neutralizzare. L’ambiguità di una vita usa al tradimento, la testa di un sapiente di Standardistan.

Adoratori della bellezza, nulla può apparire più dolce e desiderabile di una nobile testa di settantenne, gli si accendeva rara nei sensi una luce di compassione per il proprio capo rimasto solo solo a ingurgitare povere, come non ne avesse divorata abbastanza, pur sempre la casa di questa sua vita, sia pure non ignorasse raccolti altrove i pensieri le memorie, magari nel respiro, o il sito delle sensazioni, nel circolare del sangue, nel ca.. nel cu... provò a scherzare..
Non recidere, forbice, quel volto
Solo nella memoria che si sfalla
Non fare del grande suo viso in ascolto
La mia nebbia di sempre

Recitava Eugenio contro il volere delle autorità.. Eugenio bandito e Salvatore e PierPaolo e altri amici criminali della penna cui con la costanza di una Penelope innamorata aveva cucito e ricucito nella materia grigia i versi lungo le notti silenziose del sonno e grate, s’era con pazienza riedificato la biblioteca vivente, la teca mortale dell’immortalità. Le opere bandite da Standardistan aveva ormai dentro di sé lungi che il potere sciocco le sapesse dissalare. O forse sapeva.. se gli aveva levato la testa, meschino potere. Poteva recitare il Paradiso ancora e tutto senza sfallare una virgola.
Qualche volta senza parere, lungo la sua carriera, come nulla fosse durante le lezioni cacciava fuori un frammento d’opera e teneva il fiato in attesa che qualcuno degli studenti lo raccogliesse in gran segreto dentro un sorriso complice, un grazie professore sillabato dalle labbra.
  Un freddo calava del senso, oggi una sola memoria non poteva sfallare, il grande viso biondo, reciso di netto dalla sua vita il giorno di quarant’anni prima. L’amore cucito nel.. senso preciso del termine.. cu-ci-to- sul- cuo-re con l’ago e il filo penetrati a vivo nella carne. L’ultima lettera di lui, poeta, condannatosi a portare come una pelle.
Ora era stanco di trascinare i morti dentro di sé mancando il sostegno della desolazione, sfinito d’essere una sartoria vivente, perché insieme alla testa non s’erano scuciti i ricordi e così sia?

Buongiorno, professore è venuto per la sua testa? 
Come la conosce la mia testa?
Il suo nome, professore, scritto sulla busta di plastica che la conteneva
Quale busta?
L’abbiamo trovata stamani all’ingresso della bottega, io e mio marito

Graziosa, la giovane signora lo fece accomodare nel retro del caotico robivecchi discretamente odoroso di andato, piacevolissimo al respiro, grato di immagini olfattive, per converso una intensità violenta dell’infanzia lo sorprendeva esasperante alla sinistra del petto, sotto il cucito, a stento conteneva il duro risveglio di memorie sepolte sotto altre. L'anima gli si perdeva nel mondo vago  degli alti ossari a lato le tombe degli antichi cimiteri. Le urne per l’ossi di fiamma dei morti meno recenti, come dirli i meta-trapassati, condannati i nuovi morti a giacere loro accanto. Ora, via, non erano che suggestioni i volti dei genitori, il padre indebitato suicida, la madre due volte disperata. Rivedeva davanti le sbarre della caserma, la sentiva gridare Ridatemi mio figlio. Ridatelo alla sua cattedra, al suo diritto alla letteratura, la poesia..
Il gran cervello di suo figlio destiniamo alla scienza della previsione..
Ridatelo al suo amore, almeno..
E’ comandato all’accoppiamento lecito. Standardistan, gentile signora, tiene gli omosessuali al pari dei dissidenti, li tiene gli stravolti della natura, i sovvertitori della specie, il genere, l’ordine
Disumani, la voce tagliente della madre, disumani che vi accoppiate con gli umani. Vostra, la peggiore aberrazione!
L'antagonismo la scolpiva una fiera, sconosciuta alla donna vagata ch’era, era stata la madre fino allora, contro l’abbandono del padre sorgeva immensa come l’alba dal praticello; i piedi ch’erano andati avanti indietro per inquiete ore davanti la porta chiusa della camera della ristabilizzazione, gli ripassavano nella memoria con una cadenza martellante.. la vergogna intraducibile della sua resa al potere..
Si erano rivisti nell’occasione del suo forzato matrimonio, cerca di vivere, lascia a me il rimpianto

Ma, interruppe il giovane marito robivecchi, che fine fece il suo ragazzo?
Come?
Il corpo senza testa si sentì congelare, messa a nudo in due parole la sua acquiescenza flaccida, superflua, l’esistenza che s’accontenta di esistere, l’esistenza con la pancia che nemmeno più il batacchio della campana riesce a scorgersi ed è una fortuna per quanto c’è da scommetterlo proporzionato al cuore floscio, segnatamente impugnato per orinare, anzi che perso è una scomessa oltre una statistica. Messosi a nudo fino alla fine del suo ragazzo tanto valeva finirla in burlesque aprendosi la giacca la camicia ..la sua fine sono io…
Lo sguardo della giovane signora saltò due toni sopra la sorpresa, perché farsi questo..male.Tutto questo.. per ..per
Cucire il mio cuore a un uomo come ve ne furono pochi!  Vale preservarlo da individui come ce ne sono troppi, io stesso che le parlo..
Ma la fine del ragazzo, quella vera? incalzava il nato dopo la consegna della patria al Nuovo Ordine, l’ansia naturale di conoscere che cosa viene prima del niente. Prima del niente era il disordine, se prima del disordine era il niente ordinato, è possibile l’ordine riappropriatosi della radice.
Non cedette, le basta? Io cedetti. Acconsentii alle loro richieste ragionevolissime, una nuova carriera, una moglie..
Lui non cedendo? resti tra di noi..
Sparò dall’intimo un preciso chissenefrega se non ci resta. Esiste una segreta seduzione perfino nella più fiera consapevolezza dell’ingiustizia, in quel ridestarsi della pena per noi stessi che bene invoca l’aiuto da coloro che ci torturano, o che ci comandiamo di torturare, i quali quasi quasi, finiamo per compiacere. Sorrideva trasparente il professore: l’un parle bien, l’autre se tait. Et c’est l’autre que je préfère. Il n’a rien dit, mais il me plait.

L’Amour, sussultò la signora giovane, l'amour. Est un enfant de Boheme, il n’a jamais, jamais connut de loi.. La conosce maestro..
Habanera. Naturalmente, mi stupisce la conosca lei, creatura del vacuo..
Tengo una antica copia trovata per caso tra le cose da sopprimere, l’ascolto di nascosto dalla censura.. la conosco par coeur. Cucita nel cuore, oggi viene il giorno che la posso cantare, perchè nella musica ci siamo riconosciuti
Quanto meno ambigua la vita sarebbe se gli uomini si riconoscessero nell'oltre
Improvvisamente sensualissima, la vestita di qualcosa che torturava malamente l’eleganza, vide muoversi danzare, cantare splendere di tutta la femminilità possible. Si tu ne m’aime pas, je t’aime, mais si je t’aime, si je t’aime. Posò sulle é, con la disinvoltura della prima donna si fece attendere, respirò un lungo attimo l’aria della stanza, un accident di meditazione di possesso di malizia .. Prends garde à toi!
Fermo l’indice femminile sul professore a disseppelirgli dall’animo il gesto dimenticato di baciare la mano a una donna. Rimasto a mezz’aria data l’assenza della bocca.
Ah. Lo stupore del marito che, era da scommettere, vedeva la moglie per la prima volta..
Come si guarda l’amore chiuse il professore a mezza voce
Come si guarda l'amore?

Non rispose, tutto questo ormai non aveva senso per lui.

Diceva, rincalzava il marito, mi parlava di compatire..

È quasi una gratitudine trovare rifugio nella brutalità degli altri, ciò non vale per il dissidente soltanto, anche vale per  l’assente, sa.. le bestiacce oscene nere grasse  fameliche che hanno gli occhi quasi umani? Risalgono dalle assenze nere della storia a trovare migliore rifugio al sole della guerra. Non appena scoppia una contesa.. dicono “civile”..  erompono con essa i vuoti a perdere, chessò i torturatori, i consumati assassini, i chiacchieroni di sommaria materia cerebrale, i giustizieri della prima ora, erompono a ribattezzarsi nella giusta causa. La contesa è una via tortuosa che porta alla nobilitazione degli infimi, la via retta che solleva i peggiori della società, sopra la quale essi compiono la loro vendetta, nella persona dei dissidenti e nella loro, non è questione. Una lotta fra disgraziati, inquisito e inquisitore sono più simili tra loro di quanto non sappiano, partecipano all’inversione della giustizia e la vendetta. Nessuno combatte contro il bene, nemmeno i peggiori, in coscienza per giustiziare il bene è opportuno averlo prima degradato. Rovesciato. Degenerato
Se ne andò perché non volle ritornare al genere, alla prosa...
Come?
Suicida.
Mentre io mi traducevo alla libera prosa. Fino a oggi

La giovane donna ritornata viva, avanzava sensuale come Salomè con la testa dell'ospite posata sopra un antico vassoio di materiale falso-pregiato..
Ecco la sua testa professore caro, penso che..nessuno come lei la possa portare
Non ha prezzo, dunque non la posso ricomprare
In effetti cio che non ha prezzo può solo venire esposto
Dunque deve rimanere sul cuscino rosso
No. Il suo collo è il più degno espositore che conosco
Non teme ritorsioni?
Vuole la rima appropriata?
Potrebbe esistere una categoria di spiriti più elevata
I suoi professore
Non mi sono preoccupato d’altro che di fare buon viso alla malavita e per tutta la durata di essa ho tenuto cucito al petto il suo giudizio più severo, il suo più intimo sentimento. La testa a ripensarci non mi serve. Penso parlo studio imparo e insegno con altri organi, se tale mi sono ridotto da 40 anni, posso continuare.

Ma che ne sa che.. di giorno in giorno le memorie svaniscano, che le funzioni mentali e coscienziali emigrate nelle periferiche non siano che la copia di ciò che la testa sua contiene e controlla, impressioni destinate un’ora dopo l’altra a svanire per sempre

Sarò allora così leggero che potrò danzare sugli abissi
L'Habanera


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